Seduto sulla scogliera dei ricordi che ancora non avevo, lo ammiravo mentre nell’aria umida del non tempo volava libertà.
Potevo spostare l’orizzonte con un cenno,in quell’inafferrabile manciata di secoli e tenere il mondo sulla punta dell’ indice, perso nel vortice di tutti i giorni, passati, presenti e futuri.
Sentivo la pelle di ogni essere vivente, poggiare il suo calore sulla pelle che un giorno avrei avuto anch’io.
Mi perdevo cercando un rifugio, finendo per dormire tue labbra nell’attesa di un alba svegliata dal nostro primo “Ti amo”.
Potevo tutto.
Eppure non potevo staccare gli occhi dal suo volo.
Non potevo non goderne l’inafferrabilità.
L’indecifrabile semplicità delle sue traiettorie.
Su a carezzar le nuvole, poi giù per baciare le onde.
Si fermava a mezz’ altezza rimanendo qualche secondo sospeso, leggero, per poi scendere in picchiata come se il suo fosse il peso di mille corpi, oppure toccare ancora le nuvole come se pesasse un milione di anime.
Per un secondo durato millenni l’osservai.
Fino a quando non più gli bastò baciare
l’ increspatura soffiata dal vento.
E dopo l’ultima, definitiva chiusa d’ali si tuffò.
Sparendo fra la schiuma e gli spruzzi.
Era il 24 luglio 1656.
12:36.
Fu il momento in cui nacqui,
ed un corpo si fece galera.